Nel 1964 Marshall McLuhan pubblicò un libro intitolato “Gli strumenti del comunicare” in cui sosteneva che i mezzi di comunicazione di massa del XX secolo (stampa, telefono, radio, cinema, televisione) stavano modificando le nostre menti. Dal XV secolo abbiamo vissuto nella “galassia di Gutenberg”, e grazie alla meravigliosa invenzione della stampa, ci siamo immersi nei libri, in una lettura silenziosa, privata, motivata dal piacere o dalla costrizione, ma in ogni caso assorta e critica. In questo contesto, McLuhan interpretava l’introduzione dei mezzi di comunicazione di massa del XX secolo come una minaccia per questa mente lineare, attenta, concentrata nel dialogo del lettore con lo scrittore. “Il medium è il messaggio” era la massima di McLuhan, che avvertiva che i mezzi di comunicazione di massa avrebbero implicato un grande cambiamento nella ricezione dell’informazione e nell’acquisizione delle conoscenze. Si aprì allora il dibattito sulla valutazione dei media. Gli entusiasti sostenevano che la loro comparsa fosse positiva per lo sviluppo e la democratizzazione dei beni culturali. I più scettici, al contrario, li criticavano in quanto avrebbero implicato un impoverimento dei contenuti e la decadenza della cultura. Ma la visione di McLuhan andava oltre. La questione principale non era discutere il livello culturale dei media, ma i media stessi: come i media avrebbero modificato la nostra mente, il modo di percepire la realtà, ragionare, valutare, prendere decisioni, risolvere problemi. La minaccia consisteva nel passaggio da una mente lineare, discorsiva, analitica, critica, formata dalla lettura, a una mente frammentata, bombardata da informazioni, senza il tempo per poterle analizzare, senza criteri per giudicarle, senza sottoporre al vaglio critico i criteri stessi. Il pericolo aveva un nome: eccesso di informazioni e deficit delle conoscenze. In relazione a questo tema, nel 1964 anche il linguista e scrittore Umberto Eco pubblicò “Apocalittici e Integrati”, in cui esponeva la doppia posizione in merito alla cultura di massa. Da un lato, gli apocalittici la considerano un’anticultura che sorge in un momento storico di rilevante presenza delle masse nella vita sociale. Per loro, la cultura di massa non è qualcosa di passeggero, ma costituisce il segno dell’irrecuperabile caduta dell’uomo di cultura, destinato all’estinzione. Il fenomeno può essere espresso solamente in termini apocalittici. E’ poi esposta la reazione contraria, quella degli integrati. Dato che la televisione, la stampa, la radio, il cinema, il telefono, il romanzo popolare mettono i beni culturali a disposizione di tutti, rendendo piacevole e leggera l’assimilazione dell’informazione, staremmo vivendo un’epoca di ampliamento e sviluppo culturale. Per gli integrati, il fatto che questa cultura sia confezionata dall’alto per i consumatori indifesi non costituisce un problema. Così, mentre gli apocalittici sopravvivono elaborando teorie sulla decadenza culturale, gli integrati preferiscono agire e produrre quotidianamente i loro messaggi. Oggi è in corso lo stesso dibattito sulle nuove tecnologie, specialmente su Internet. Le posizioni si situano in un continuum che spazia dai più entusiasti e ottimisti ai più pessimisti e critici, da chi vede una nuova era di progresso in tutti i campi del sapere e dell’essere, nelle conoscenze e nelle capacità, nello sviluppo personale e sociale, fino a chi, all’estremo opposto, presagisce un’epoca di mediocrità, povertà culturale, individualismo e narcisismo. Ma, ancora una volta, la questione non riguarda i contenuti delle nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione, l’importanza di molteplici programmi e applicazioni, la gestione del loro utilizzo per tenerle sotto controllo: la questione principale è nelle tecnologie stesse, in come Internet sta cambiando i nostri cervelli, i nostri processi mentali, e in particolare la nostra memoria. Riassumendo, la chiave sta nel comprendere le implicazioni dell’ormai noto “effetto Google”, ovvero la tendenza a non custodire e immagazzinare nella nostra memoria delle informazioni che possiamo trovare facilmente su Internet. In numerose occasioni e circostanze nel corso della giornata, in contesti di lavoro, svago e occupazioni giornaliere, siamo abituati a cercare l’informazione che desideriamo con un semplice clic. Quali sono le conseguenze sul nostro modo di apprendere e memorizzare? La potenza dei motori di ricerca può indurre a pensare che gli sforzi per codificare e immagazzinare determinati dati siano inutili. Così, Internet sta diventando un’estensione della nostra memoria, una memoria espansa che non ha limiti, una protesi mnemonica digitale, onnipotente rispetto alla nostra memoria limitata, e con tanti deficit. In altri termini, se riponiamo piena fiducia in Google per trovare i dati che ci interessano, delegheremo la nostra memoria al motore di ricerca e ci risparmieremo la fatica di apprenderli e ricordarli. In questo modo, l’informazione non si registra nella nostra memoria personale, biologica e naturale, ma nella memoria esterna, digitale e artificiale. Ciò porta a domandarsi: con quali conseguenze? Il cervello digitale di un computer è molto diverso dal cervello vivo di una persona. Il cervello digitale assorbe l’informazione, la salva immediatamente nella sua memoria e la recupera interamente, ogni volta che si vuole, senza alcuna modifica. Invece, il cervello umano elabora costantemente l’informazione, ricostruendo i ricordi. Il cervello che ricorda non è più lo stesso che ha elaborato il ricordo. Dato che i meccanismi soggiacenti a entrambe le memorie sono così differenti, è normale che l’abuso dell’artificiale finisca per provocare disfunzioni nel naturale. Ricordiamo come, nell’ambito delle riforme educative, l’introduzione delle aule di informatica nelle scuole venne accolta con ottimismo. I professori consideravano i link e gli ipertesti come strumenti per ottimizzare i processi di insegnamento e apprendimento: l’ipertesto avrebbe facilitato l’acquisizione di conoscenze, il pensiero critico e la motivazione per il sapere. Tuttavia, presto apparvero degli studi che limitarono questo entusiasmo. Navigare nell’ipertesto significava svolgere compiti impegnativi che interferivano con la comprensione e l’apprendimento del testo, di modo che i lettori di ipertesti visitavano le pagine senza prestare la dovuta attenzione, con maggiori difficoltà nel ricordare quanto avevano letto. La navigazione in Internet implica un multitasking intensivo, tale per cui la rete comporta un sistema di interruzione dell’attenzione sostenuta e focalizzata. Siamo costantemente intenti a cambiare obiettivi, con l’attenzione frammentata e volta a gestire l’interferenza tra gli stimoli. La nostra attenzione è costantemente richiesta, la qual cosa comporta un’interruzione del pensiero. Le numerose applicazioni ci avvisano dell’arrivo di un messaggio. In base alle applicazioni che scarichiamo possiamo ricevere decine di notifiche ogni ora, e non è affatto facile mantenere focalizzata l’attenzione e la memoria di lavoro con tante interferenze e distrazioni. Il problema è che siamo noi a desiderare di essere interrotti, perché ogni notifica è una chiamata per ricevere un’informazione che ci interessa. Bloccare le notifiche o sconnettere il cellulare ci risulta insopportabile, con l’impressione di essere isolati socialmente. Attualmente, le neuroscienze si domandano se le nuove tecnologie stiano modificando il nostro cervello, ma non disponiamo ancora di uno studio conclusivo al riguardo. La lettura e la scrittura fecero la loro comparsa 6000 anni fa e cambiarono i cervelli delle persone. Aree neurali che per 200.000 anni di storia dell’Homo Sapiens furono dedicate ad altre funzioni dovettero “riciclarsi” per svolgere i nuovi compiti della lettura e della scrittura. Allo stesso modo, le nuove tecnologie stanno presumibilmente modificando il nostro cervello, ma le caratteristiche di questi cambiamenti non saranno definite finché non sarà trascorso del tempo. Inoltre, è ragionevole pensare che tali cambiamenti saranno differenti nell’infanzia e nell’adolescenza dei nativi digitali che socializzano con le nuove tecnologie rispetto agli adulti e ai migranti digitali, ovvero a coloro che hanno appreso l’uso delle tecnologie digitali in età adulta. Secondo la mia opinione, i cambiamenti porteranno vantaggi e perdite: determinati processi mentali, come il rendimento multitasking, la localizzazione, la classificazione e la valutazione dell’informazione, la percezione, l’immaginazione e le abilità visuo-spaziali saranno tra i vantaggi; tuttavia, l’attenzione focalizzata e sostenuta, il pensiero argomentato, critico e riflessivo potranno esserne colpiti negativamente. La nuova tecnologia informatica non solo può arrivare ad alterare i nostri abituali processi di memorizzazione, ma rappresenta anche una grande speranza nell’ambito delle principali ricerche in atto sui disturbi della memoria.
Bibliografia
N. Carr, Internet ci rende stupidi? Come la rete sta cambiando il nostro cervello, Milano, Raffaello Cortina Editore, 2011
U. Eco, Apocalittici e integrati, Milano, Bompiani, 1964
M. McLuhan, Gli strumenti del comunicare, Milano, Adelphi, 2015